Centro di detenzione provvisoria

Carcelén Bajo, 7 giugno 2012

In uno dei giorni precedenti alla domenica delle Palme è avvenuto un tragico incidente automobilistico in una strada della parrocchia di San Lucas: un giovane ventenne, guidando il taxi del papa’, ha investito una giovanissima famiglia, provocando gravi danni fisici al marito ed ai due figli e purtroppo la morte della mamma.

Come parrocchia stiamo aiutando economicamente questa famiglia, soprattutto per le spese mediche, in quanto l’assicurazione tarda anzi resiste nel inviare il suo contributo. I nonni materni si sono assunti la responsabilità educativa del figlio maggiore di 8 anni e lo hanno portato con sé in Colombia dove vivono. Il giovane papà, che si sta riprendendo e già cammina senza stampelle, invece si fa carico del piccolino di 8 mesi, al quale sono state applicate protesi in entrambe le gambe.

Questa lunga introduzione mi serve per parlare piuttosto del giovane autista del taxi, che si trova ora in… prigione!

Già lo sapete che le leggi non sono uguali in tutto il mondo. Il codice stradale equatoriano afferma per esempio che chi provoca o anche subisce un incidente stradale, in cui vi siano vittime o feriti gravi, viene immediatamente portato in prigione, in attesa di processo o di giudizio. Pertanto, anche se un ubriaco ti attraversa immediatamente la strada e tu non fai in tempo ad evitarlo e lo uccidi o ferisci gravemente, sai che per legge sei destinato alla gattabuia almeno per alcuni giorni.

Ebbene, questo giovane ventenne, occasionale autista del taxi del papà, ora si trova in prigione. Beh, dirò che non è la prigione vera e propria, dove vengono incarcerati ladri, delinquenti ed assassini. È, come ricorda il titolo, un centro di detenzione provvisoria per malcapitati in incidenti stradali. Lo ripeto: la polizia non deve giudicare chi è colpevole o innocente, ma deve semplicemente detenere chi è coinvolto nell’incidente e portarlo nel luogo di detenzione fino alla data del processo.

Qualche giorno fa ho incontrato un parente di questo giovane ed ho appreso che si trovava ancora in questo centro. Ho deciso allora di andare a trovarlo, chiedendo di essere accompagnato. Gli stessi genitori si sono proposti e assieme a loro l’altro ieri sono entrato in questo centro, che per la verità avevo già visitato lo scorso anno, in novembre, per trovare un altro parrocchiano adulto che aveva ucciso con la sua auto un bambino di 4 anni che stava giocando per strada.

Con la mia auto entro nel parcheggio e mi trovo davanti a una piccola porta, presidiata da vari poliziotti. La mamma del giovane subito si giustifica, essendo noi entrati al di fuori dell’orario di visite, dicendo che il figlio le aveva dato appuntamento all’entrata poiché tornava da un interrogatorio richiesto dalla procura. All’arrivo del figlio, scortato da 4 poliziotti, mi rendo conto di non averlo mai visto, mi pareva un estraneo. Oltretutto osservo che non cammina bene, possiede una evidente disabilità agli arti inferiori: seppur lentamente, comunque cammina con le sue gambe. Lui invece mi si avvicina e mi saluta come se mi conoscesse bene: Hola, padrecito. Qué gusto que haya venido a visitarme.

Assieme a lui e con il consenso dei poliziotti entriamo nella “prigione”. Uno dei poliziotti apre la unica porta d’entrata, con le classiche sbarre, e poi la chiude dietro di noi. Eccoci in prigione: si tratta di una sola stanza, uno stanzone dormitorio con almeno 30 letti a castello, atti ad accogliere fino a 60 detenuti. Nella parte opposta si accede ai bagni, senza una porta né una tenda, solo un muro che ne impedisce la vista, ma non gli odori! Qui vivono, nel tempo che li separa dal processo, i detenuti, che in quel momento erano trenta: 6 stavano guardando la tv al centro della sala, altri 5 giocavano a carte, altrettanti erano nei bagni, non tanto per bisogni fisiologici, quanto per telefonare nell’unico luogo dove ci fosse la possibilità di parlare senza brusio. Tutti gli altri erano distesi a letto, o a leggere o al computer, o a chiacchierare o a riposare: ognuno nel proprio letto, ossia nell’unico posto in cui potessero avere un po’ di privacy! Impressionante il fatto che una trentina di maschi adulti, spesso convinti della propria non colpevolezza, debba rimanere rinchiusa in un luogo tanto angusto per alcuni giorni, talora settimane, talora mesi!

Eh, sì! Non si può essere sicuri di uscire subito o in tempi brevi: il mio giovane parrocchiano mostrava preoccupazione ed agitazione con la mamma, perché disgustato di perdere tanti giorni di scuola all’ultimo anno delle superiori e timoroso soprattutto dell’eventualità di non poter uscire per affrontare gli ormai prossimi esami di maturità, giacché la legge non permette né di uscire per motivi scolastici né di essere esaminati all’interno del centro di detenzione.

Insomma, non potendo far nulla da prigioniero per migliorare la propria situazione, cercava di informare i suoi genitori quanto ai suoi diritti e di indirizzarli agli uffici di avvocatura che meglio lo possano aiutare.

Mentre ascolto, capisco che è un mondo che non conosco molto, fatto di avvocati, leggi ed anche raccomandazioni. Forse il massimo che posso fare per lui è dialogare con la famiglia da lui coinvolta nell’incidente perché ritiri l’accusa o perlomeno la mitighi.

Mentre mi congedo, mi chiede se conosco un altra persona di Carcelén Bajo, che è detenuto da parecchio tempo. E mi spiega che si tratta di un uomo che alcuni mesi fa in un incidente aveva provocato la morte di un bimbo di quattro anni! Mi sorprendo che quest’uomo che già avevo visitato agli inizi di novembre, prima di ripartire per le cure cervicali in Italia, dopo tanti mesi fosse ancora detenuto!

Era uno di quelli che giocava a carte. Mi avvicino ed ora mi riconosce come il padrecito. Quindi, senza l’entusiasmo di sperare in un miracolo, mi parla della sua situazione, dicendomi che si sono dimenticati di lui, che il suo avvocato non riesce a muovere la situazione e che, nonostante l’accusa della famiglia dopo alcuni mesi sia decaduta, lo Stato non permette che la detenzione venga sospesa. Mi dichiarava infine, con falso orgoglio, che solo un altro detenuto lo batteva in tempo di permanenza.

Sorpreso e dispiaciuto, dico solo che avrei tentato di contattare il suo avvocato per capirne di più e magari trovare o favorire una qualche soluzione. Uscendo dal centro e congedandomi da tutti, continuavo a sorprendermi del fatto che quest’uomo per un lunghissimo periodo, quasi sei mesi, mentre io andavo in Italia, mi curavo, facevo terapie, mi rimettevo in sesto, ritornavo in Ecuador e riprendevo il ritmo della parrocchia, lui era rimasto in quello stanzone, dimenticato dalle istituzioni e forse anche abbandonato dalla sua famiglia.

Padre Giampaolo Assiso

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